La scuola, il vaccino che serve a far ripartire il Paese
La scuola è un primo vaccino per far ripartire il Paese e non si produce in laboratorio, basta solo valorizzare al meglio le risorse umane che abbiamo.
Di Pietro Folena
La pandemia, come ha recentemente scritto Noam Chomsky, ha messo a nudo un altro errore colossale del capitalismo finanziario: quello di non aver saputo né voluto prevedere un fenomeno globale di questa natura, già ampiamente annunciato dalla Sars, da Ebola e da altri virus che avevano risparmiato l’Occidente. Questo è avvenuto per l’istinto speculativo e predatorio di questo sistema, che preferisce far soldi, con le grandi case farmaceutiche e coi gruppi digitali globali, quando un’epidemia è scoppiata, che investire in strutture e in prevenzione. Amazon, leggevo, ieri, ha visto aumentare di trenta miliardi di dollari il proprio fatturato, nelle settimane del coronavirus. Qui è la responsabilità principale di quanto siamo stati presi alla sprovvista, e della crisi che ne è scaturita.
Tra le fragilità insostenibili della civiltà contemporanea, a causa del pensiero unico che ha imposto la distruzione dello stato sociale, la privatizzazione dei sistemi sanitari e la precarizzazione del lavoro, c’è stata per quasi un trentennio la convinzione che il sistema scolastico pubblico e universalistico dovesse essere sostituito da un sistema di formazione modellato dall’ideologia liberista, costruito sull’assunto indiscutibile che l’unica forma organizzativa efficiente sia quella dell’impresa. Eppure il modello sociale europeo, sorto da un lungo processo che aveva avuto origine nella Rivoluzione Francese, aveva fatto della scuola pubblica il cardine dello stato democratico. In Italia, in particolare, dove l’unità politica è stata raggiunta così tardi, le comuni tradizioni linguistiche e culturali del Paese al momento dell’Unità non erano ancora fuse in una lingua e in una cultura unitaria.
La scuola pubblica cardine del progresso sociale
Alessandro Manzoni, che aveva riflettuto da tempo sulla questione, e che con i Promessi Sposi aveva dato un contributo fondamentale all’unità linguistica italiana, nel 1867 fu incaricato dal Ministro dell’Istruzione Emilio Broglio di redigere sull’argomento una relazione, che vide la luce nell’anno successivo: “Dell’unità della lingua e dei mezzi per diffonderla”. Il reclutamento degli insegnanti e la costruzione delle scuole in ogni angolo del Paese furono il contributo più significativo dato dalle classi dirigenti affermatesi dopo l’Unità, a differenza da quanto avvenuto in altri ambiti. Basta sfogliare Cuore di Edmondo de Amicis, per comprendere appieno il valore storico e sociale – socialista, vorrei dire – della scuola pubblica nell’Italia unita.
Altrettanto si può dire del secondo dopoguerra. E’ stata la molla dell’istruzione, in un paese con un alto tasso di analfabetismo, a spingere in modo potente verso la rottura delle schemi classisti che segnavano la scuola italiana, culminati con la riforma voluta dal Ministro e filosofo Giovanni Gentile, durante il fascismo. Quel modello gentiliano aveva realizzato una scuola di assoluta eccellenza per le classi agiate, e un sistema scolastico destinato alle classi popolari.
La spinta dei lavoratori emigrati dal Sud nelle grandi città del triangolo industriale e quella delle classi popolari – braccianti, in primo luogo – che si organizzavano per la difesa dei propri diritti, crearono le condizioni, col primo centro-sinistra, della riforma della scuola media unificata, che realizzò il dettato costituzionale dell’articolo 34 (“La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”); successivamente la liberalizzazione degli accessi alle università contribuì in modo determinante ad aprire a tutti la possibilità di compiere studi elevati, prima riservati a ristrette classi dirigenti. Don Lorenzo Milani può essere considerato come la personalità più eccezionale che in quegli anni ha concretamente dimostrato come la lotta per l’istruzione sia il cuore di una lotta di giustizia sociale e di inclusione.
Crediti, test e Buona scuola
Il PCI, il PSI, la sinistra -fino a quella extraparlamentare- hanno avuto in questo processo un ruolo decisivo. Antonio Gramsci, del resto, era stato il pensatore che aveva rifiutato una visione schematica della cultura come mera sovrastruttura, e venendo da una cultura idealista aveva indicato nella lotta culturale il cuore di un pensiero di cambiamento. Le conquiste e le avanzate della sinistra coincidono con le stagioni nelle quali più sono stati imponenti la battaglia per la riforma della scuola e l’impegno culturale.
E poi, lentamente, si è fatto strada anche a sinistra un pensiero economicista. Si è cominciato, goccia dopo goccia, a considerare la scuola come un settore pubblico alla pari di altri, e poi a riconoscere che la sfera pubblica si era troppo allargata, e quindi a fare propria l’idea che il modello dell’impresa e la logica della competizione fossero l’unica chiave di cambiamento della scuola e dell’Università. Questa posizione -ben espressa nella terza via di Anthony Giddens- è stata definita “liberismo temperato”.
Dal tre più due alla logica dei crediti, tutto è stato trasformato in budget, con entrate e uscite, perdite e profitti, caduta di ogni riflessione forte sull’asse culturale della scuola. Finché si tornava indietro (il punto culminante è stata la Buona scuola, voluta da una sinistra che si pretendeva finalmente moderna proprio perché rinnegava la propria storia) e intanto le scuole cadevano a pezzi, non si integravano le nuove tecnologie digitali, gli insegnanti rimanevano i peggio pagati dell’Occidente, in quello stesso tempo le classi dirigenti del mondo portavano nelle loro scuole l’umanesimo, incrociavano la filosofia, la sociologia, la psicologia con l’economia, superavano le vecchie visioni iperspecialistiche, cercavano di formare una capacità di comprensione e di intervento in una società complessa.
Il “miracolo” della didattica a distanza
Qui è arrivato il Covid-19. In un sistema scolastico che vede da un lato carenze strutturali e tecnologiche significative, e dall’altro l’eredità, l’onda lunga delle lotte per la scuola di tutti, di cui una generazione di insegnanti, spesso vicini alla pensione, è l’espressione; e l’eredità delle lotte per la legalità compiute nella scuola negli anni delle stragi politico-mafiose, o di quelle più recenti contro le guerre del nuovo secolo e per la salvezza del pianeta. Un fattore umano importante, talvolta formidabile, in una struttura obsoleta, con sempre meno risorse a disposizione.
Per questa ragione non si può non considerare un miracolo la cosiddetta “didattica a distanza”. Essa ha permesso a una parte (non dimentichiamolo: a un’altra no) di godere di una qualche forma di continuità didattica, di proseguire i programmi, di scoprire modalità formative e comunicative in rete prima inesplorate. In questo processo un ruolo importante è stato svolto dalle famiglie, chiamate in qualche modo a integrare il lavoro (di controllo, di pulsione, di verifica) svolto dai docenti, ben più di quanto non accada in tempi ordinari.
Tuttavia, com’è stato giustamente scritto, quella forma di didattica è più corretto definirla “di emergenza”. Non si può lontanamente pensare che essa sostituisca il rapporto fisico e diretto tra gli studenti e i loro docenti. Il fattore umano della funzione docente non è decisivo solo nella stagione dell’infanzia – quando i maestri dell’asilo e della scuola elementare si sostituiscono alle figure dei genitori -; ma in tutto il corso degli studi. Gli sguardi, la voce, il feeling, la relazione, le emozioni che si creano in una lezione reale sono assolutamente irriproducibili in un algoritmo. Non solo. A distanza la fiducia reciproca si attenua: si insinua il dubbio sull’autenticità, l’onestà, la verità della relazione studente-docente. Alla lunga la formazione diventa una spolveratina di nozioni, e la verifica un test a risposte multiple. Tutto diventa un test. La vittima è il pensiero critico, che è fatto di dialettica, di confronto tra tesi diverse o persino opposte, di messa in discussione.
Il punto debole, la scomparsa del tema della cultura
Vorrei aggiungere che i minori, e in particolare gli adolescenti, sono stati – insieme agli anziani, colpiti dal virus nelle loro fragilità – le vittime invisibili di questa stagione. Hanno dato un contributo importante al rispetto delle regole, talvolta in nuclei familiari in cui si scaricavano o esplodevano vecchie e nuove tensioni. Hanno sofferto l’assenza di una dimensione sociale, per loro costituita prima di tutto dal plesso scolastico. Molti di loro, come detto, neppure hanno potuto partecipare alle lezioni on-line, perché privi di mezzi e di connessione. Questa generazione esprime, ancor prima degli insegnanti e dei genitori, tutto il disagio per una situazione che dev’essere superata.
Per queste ragioni ritengo che il punto debole delle scelte compiute dal Governo e dalla politica, in questi difficili mesi, sia stato proprio questo. Nel binomio salute-economia, che ha assorbito il dibattito pubblico, è scomparso il tema della cultura, e della sua agenzia principale, la scuola. Si è oscillato tra dichiarazioni contraddittorie, prospettando, a differenza da quanto è avvenuto in Francia, la non riapertura delle scuole in quest’anno scolastico e addirittura una riapertura a singhiozzo – un po’ in classe, un po’ a distanza- dell’intero sistema scolastico il prossimo anno.
Le Università hanno già annunciato l’intenzione di proseguire on-line per il prossimo anno accademico. Se oramai sul primo punto la frittata è fatta, e non si torna indietro, voglio dire che sarebbe esiziale riaprire le scuole a singhiozzo o in modo precario.
Il rischio del doppio circuito
C’è un rischio alle porte, recentemente richiamato da Nuccio Ordine: che le élites, di nuovo, studino in luoghi confortevoli e adeguati tutto ciò che gli permette di continuare a governare il mondo; e che gli altri – la grande maggioranza – sia spinta in un circuito digitale omologante, gestito dai grandi player internazionali, che permette di avere l’infarinatura utile a servire – essere servi – in quel mondo.
Esigiamo, dobbiamo esigere un piano che impegni nelle prossime settimane e nell’estate tutte le energie per garantire la riapertura in condizioni “normali” (con tutte le norme che valgono negli uffici, nelle fabbriche, nelle palestre, nel commercio di distanziamento e di precauzione) della scuola e dell’università, di ogni ordine e grado. Le task force di pochi veri o presunti specialisti dovrebbero essere sostituite da un grande dibattito popolare, che investa studenti, docenti, genitori, istituzioni locali, terzo settore, mondo economico e sociale attorno agli assi di una riforma della scuola che inverta la tendenza di questi ultimi decenni, e che si concluda con gli Stati Generali della scuola e dell’Università. Con un progetto di accrescimento della conoscenza di tutti i giovani, e di educazione permanente per tutte le generazioni.
La scuola, il vaccino che serve a far ripartire il Paese
La riforma intellettuale e morale della società italiana, dopo questi lunghi anni di crisi e di stagnazione, impone un nuovo paradigma: “Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza”, scriveva Gramsci. E poi, ancora : “La cultura è organizzazione, disciplina del proprio io interiore; è presa di possesso della propria personalità, e conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti, i propri doveri.”
Penso che semplicemente dobbiamo ripartire da queste idee e trovare loro un posto in un mondo da salvare e da cambiare. Insomma: la scuola è un primo vaccino, e non dobbiamo aspettare che si produca in un laboratorio.
La scuola, il vaccino che serve a far ripartire il Paese
Pubblicato da Inifiniti Mondi, diretta da Gianfranco Nappi e Massimiliano Amato, in distribuzione nelle librerie dall’11 giugno